É arrivato Leandro Erlich a Palazzo Reale e, sinceramente, all’inizio non l’ho presa sul serio. Invece poi ho capito il vero senso dell’esposizione (e, se vuoi che te lo racconti, ci sono due date pronte per settembre qui)
Vabbè ma che devi spiegare, in questa mostra? L’ovvio? Tanto la gente verrà per farsi le foto mentre fa finta di cadere dalle scale.
Per chi non fosse a conoscenza del lavoro di Leandro Erlich (Buenos Aires classe 1973) vi rimando alla galleria di opere che trovate sul suo sito ufficiale. Grandi installazioni site specific (cioè create appositamente per l’esposizione) invitano lə spettatorə a entrare fisicamente nella narrazione. Ci si può sporgere da un balcone fingendo di cadere, aggrapparsi a una balaustra, sedersi in una stanza green screen ed essere proiettati in una finta scuola in rovina.

Sono due i fattori che hanno creato movimento attorno a questa mostra: uno è che lo sponsor tecnico (e prestatore) è il nome di un grosso brand di skincare. L’altro è che molti instagrammer e tiktoker sono statɜ coinvoltɜ nella promozione. Non è un caso che tutte le classi superiori che ho accolto in mostra conoscevano già il contenuto delle sale via reel o TikTok.
Il pubblico che sta giungendo a Palazzo Reale è, oggettivamente, diverso dal solito: troviamo una fascia che di rado si vede bazzicare tra i corridoi di mostre e musei. Forse poco interessata ai risvolti contenutistici ma con abiti in palette alle installazioni. Probabilmente non tornerà a vedere Goya a ottobre (invece voi sì, quindi tenete d’occhio il calendario eventi) ma in fondo, chi se ne frega.
Eh sì. Chi. Se. Ne. Frega.
Si ha sempre questo atteggiamento snob verso chi fruisce della cultura e chi no. E non mi sto tirando fuori. Conosco i miei pregiudizi. Sono quelli con cui farciamo i nostri commenti nelle chat di lavoro. Spesso ho un moto di stizza verso chi non frequenta luoghi di cultura, quasi fosse una colpa inemendabile. Ma poi ci penso meglio e mi dico:
Perché, di grazia?
Pensiamo che la cultura sia un dovere. E invece non lo è. La cultura è una scelta. E spesso è anche un privilegio di una certa classe sociale. Essere allevati con la concezione che la cultura sia spendere molti soldi per libri, teatro e arte è retaggio di chi può adagiarsi su una buona situazione economica. Chi alla fine del mese deve fare i conti col portafogli vuoto, col cavolo che contempla una gita al museo.
Ma anche se fosse, se unə il suo tempo libero lo vuole passare altrimenti, sarà pur liberə di farlo? Chi non va al museo o alle mostre avrà un suo percorso di vita e delle motivazioni legittime che non rendono attuale la scelta di impegnarsi in tal senso. É un reato? Vanno giudicatɜ? Certo non da me che, in altri ambiti, so cosa vuol dire dover sentire il peso dell’opinione altrui (e non richiesta) sulle mie decisioni personali (quando fai un figlio? quando fai un figlio? quando fai un figlio? Riecheggia nella mia testa).
E: sì. Chi viene a questa mostra lo fa perché ha voglia di farsi le foto. Perché è divertente. Lo so perché li vedo, li accolgo e me lo dicono chiaramente. La classe in gita, sfatta e sfinita da infernali tabelle di marcia sotto il sole cocente in cui si sciroppano malamente Castello Sforzesco, Brera, Binario 21, Binario 9 e tre quarti e Marte, arrivano da Leandro Erlich e cacciano un respiro di sollievo. Si riaccende l’entusiasmo, anche se ci sono io, che sono la guida e, solitamente, vista come foriera di noia.
Io ci metto tutto il mio impegno per alimentare il clima di stupore e allegria. Parlo meno del solito e trovo spunti per parlare di temi importanti ma in modo leggero: che sia l’innamorarsi in metro, il non riconoscersi nel proprio corpo, la malinconia del viaggio, eccetera.
Ma soprattutto: lascio fare, lascio che ɜ studentɜ (e anche gli adulti, bambinɜ eccetera) esplorino le opere d’arte dinnanzi a loro.
Sì, perché di opere d’arte si tratta, non di sarcicce, come direbbe la Karin di Boris.
Quel barlume di svago e di senso di appartenenza (l’ho visto su TikTok) è un grosso appiglio. É una specie di scivolo didattico, laddove insegnare, al museo, è spesso una salita, ostica e impervia. Prima di tutto perché, anche se tu sei unə educatorə museale, loro ti vedranno sempre come una succursale dell’insegnante. E quindi una potenziale rottura di balle. Secondo, perché divertirsi è il miglior modo per stimolare la sete di conoscenza, con buona pace di insegnanti, guide turistiche ed educatorɜ che perseverano nella pedante arte della meticolosa serietà dei contenuti tramite overdose di nozioni (il metodo che io soprannomino: l’ingozzo dell’oca da foie gras).
Quindi, sì alle battute, allo stupore scaturito dal non aver compreso l’illusione ottica. Sì a fermate di interi minuti per collocarsi con la postura giusta per farsi una fotografia. Sì a tutto quello che, fondamentalmente, Leandro Erlich vuole dal pubblico.

Siamo abituatɜ a sorbirci interi elenchi di regole, quando varchiamo la soglia di un luogo di cultura. Non si parla, non si corre, non si tocca, non ci si siede. Qui, invece, Erlich ci esorta a fare esattamente il contrario: tocca, fotografa, sposta (a volte anche rompi, senza volerlo – o volendolo – in una dimensione di contingenza della vita), sdraiati, siediti. Non stare per forza a scervellarti su cosa significa. Quello no. Ma una cosa per Erlich è importante: capire come ti ha ingannato.
I trucchi delle sue opere sono tutti smascherabili. Lo fa apposta. Perché già la vita è un grande tranello, spesso irrisolto. Almeno l’arte deve avere la generosità di spiegarti i dietro le quinte.
Mi piace far notare a chi mi ascolta che viviamo i musei e le mostre come luoghi passivi. L’arte sta appesa al muro, su un piedistallo metaforico oppure no, e tu stai lì a guardare. Non siamo più nemmeno abituatɜ a pensare le opere come grandi macchine teatrali che dovrebbero muoversi, parlare e prendere vita attraverso la nostra immaginazione.
Erlich invece supera l’idea che il nostro compito, in una mostra, sia quello di passeggiare, fermarsi e osservare. Ché in quell’osservare ci sta spesso distrazione, noia, dubbi e incomprensioni che rimangono non detti e, quindi, irrisolti.
Erlich ti dice: sperimenta col tuo corpo. Anche solo col tuo occhio. Queste mie opere, senza di te, non sono niente, perché tu, spettatorə, sei il motore che fornisce il senso. Il tuo giocare e il tuo divertimento può sembrare solo un effetto collaterale, invece è il senso ultimo: noi giochiamo ergo cresciamo. Quando smettiamo di giocare, di dilettarci, di svagarci, perdiamo parte della nostra spinta evolutiva. Finisce il momento di crescere e inizia l’era dell’appassire. Giocare è una cosa seria.
Non è mai troppo tardi per farsi un’infanzia felice.
Tom Robbins
E divertirsi non è un reato.
E, se ti interessa, ti ci porto sabato 16 settembre alle 15.15 o domenica 24 alle 14.45