Vincent Van Gogh. Le parole prima delle immagini

Se mi chiedete perché amo Vincent Van Gogh, vi direi che io prima lo amo come scrittore, e poi è tra i miei artisti preferiti.

Mentre racconto la mostra Vincent van Gogh, pittore colto, che ha inaugurato al Mudec il 21 settembre, a volte sorrido pensando: chissà se i visitatori sanno che io, lui, ce l’ho tatuato.

Magari qualcuno ha visto sul mio braccio il prolungamento di questa Notte Stellata e ha pensato che fosse solo un gioco astratto. E invece no.

Quando mi sono tatuata questa opera volevo fare un omaggio alla mia professione che, per me, si può riassumere in questo: porsi davanti a un confine incorniciato e farlo esplodere usando le parole. Mi piaceva mostrare, con un’immagine impressa sul mio corpo, cosa sento quanto racconto. I Radiodervish, in una canzone che amo molto, dicono: Colmo il vuoto con i simboli.

Beh, io il vuoto lo colmo con le parole.

Come un argine ferito, sulla mia pelle, i confini della cornice si rompono e riversano una scia di colore. Ma quel colore, che si confonde e gioca colando sul mio braccio, altro non sono che le parole. Sono le mie parole, quando vi disvelo cosa c’è dietro la superficie. Sono le parole di chi, prima di me, mi ha condotto a comprendere. Sono le parole degli stessi artisti che hanno tracciato e pronunciato.

Nel progetto iniziale del tatuaggio non dovevano esserci riferimenti ad alcun artista, volevo solo la cornice rotta e il profluvio variopinto, in una sintesi tra rigore geometrico e imprevedibilità del pensiero.

Perché è questo, in sostanza, l’educazione museale: giocare entro i confini rigidi imposti dall’arte, sconfinando con il pensiero tracciando gioiose vie interpretative

Improvvisamente, però, ho avuto l’illuminazione: doveva esserci Vincent, in qualche modo, a consolidare il senso del mio tatuaggio.

Se mi chiedete perché amo Vincent Van Gogh, vi direi che io prima lo amo come scrittore, e poi è tra i miei artisti preferiti.

Le parole di Vincent van Gogh sono la porta ideale per penetrare il senso della sua opera visiva: intrise di trasporto, tormentate e passionali. Vincent descrive il mondo con amore. Ne vuole descrivere i contorni con immagini sempre più vive. E così, per nutrire questo impeto, legge tanto, tantissimo. Al fratello Theo fa scrupolose rendicontazioni sulle ultime uscite, sull’innamoramento per Michelet, Zola, Dickens, Shakespeare, Omero, e tanti altri.

Anche lui colma il vuoto con i simboli e con le parole.

É così che, entro le cornici, Vincent non mette solo il mondo esteriore, colto nella sua casualità. No, Vincent ci mette quello in cui crede e il suo sogno infranto: quello di diventare pastore di anime. Perché sì, oscuro a molti, il suo vero scopo nella vita avrebbe dovuto essere quello, pastore protestante. La pittura, per Vincent, è il piano B.

E così, ne I mangiatori di patate lui vede la spiritualità nella povera gente che si spreme di lavoro per giungere esausta al desco.

Nella Vigna vede il simbolo del legame tra fedeli e Dio.

Nella spiga di grano dei Covoni è intelligibile il destino dell’umanità, in una delle citazioni che amo di più:

Cosa altro si può fare, pensando a tutte le cose la cui ragione
non si comprende, se non perdere lo sguardo sui campi di grano.

La loro storia è la nostra, perché noi, che viviamo di pane, non siamo forse grano in larga parte?
Se non altro, dobbiamo o no sottostare a crescere, senza poterci muovere, come una pianta, ignorando ciò che la nostra immaginazione a volte desidera, ed essere falciati quando maturi?

Per quanto mi riguarda, penso che sarebbe più saggio non augurarsi di star meglio, di riacquistare le forze e probabilmente mi ci abituerò, ad essere spezzato. Un po’ prima, un po’ dopo, che differenza vuoi che faccia per me?

Vincent van Gogh

Così, ieri ho portato un gruppo con me. Mentre stavamo entrando ho sentito una partecipante bisbigliare all’altra: “mi hanno detto che questa mostra è deludente, non ci sono capolavori e nelle vetrine ci sono libri che ha letto, ma non si capisce molto bene”.

Entro e inizio il mio racconto. Metto insieme dati e cito le parole di Vincent, il mio faro nella notte. Ricostruisco tappa dopo tappa i suoi viaggi, le sue letture, le sue cadute, il suoi amori finiti male. Lo vedo disegnare e strappare fogli, imparare l’acquerello, andare dal cugino per apprendere la tecnica dell’olio.

A metà strada, una signora del gruppo mi si avvicina e mi dice: “senza di lei, non avrei apprezzato quasi nulla”.

Vedete, questa mostra ha un obiettivo maturato in molti anni. Mariella Guzzoni, curatrice, è la scrittrice di I libri di Vincent. Leggendo le lettere al fratello Theo, Guzzoni si rende conto che non c’è una missiva in cui non si citi un volume, consigli un romanzo, annunci una rilettura di un certo tomo. Vincent leggeva in tre lingue e ricordava a memoria interi brani. Si perdeva e si ritrovava nei classici così come nelle ultime uscite.

Una mostra così è frutto di un colpo di fulmine tra una studiosa e un pittore che ha generato anni di approfondimenti. Quello che la studiosa ha raccolto, nel corso delle sue ricerche, rimane a noi ignoto. Ed è così che, quando inaugura una mostra che ha alle spalle tanto lavoro, è facile che i non addetti ai lavori si trovino spaesati.

Credo che “la colpa” sia un po’ da attribuire agli allestimenti: didascalie verbose finiscono non lette. L’altra aggravante è la tendenza a non capire che ciò che hai studiato tu per anni… l’hai studiato TU, mica il pubblico. Mi è capitato un sacco di volte di avere a che fare con prof che iniziavano una frase con: “Come voi saprete,” e invece no, non ne sapevamo niente.

Il mio lavoro, però, non dà per scontato nulla, voi non dovete sapere niente. Anzi, sono io che, prima di iniziare a imbastire il mio discorso a braccio, colgo come ciliegie quei punti della mostra che immagino il pubblico non possa raggiungere, cercando di offrirvi i frutti più succosi per farveli assaporare.

Per fare ciò, devo domandarmi costantemente: “Ma che cosa capiranno i miei uditori e le mie uditrici? Cosa vorranno portarsi a casa? Cosa non si aspettano e ameranno scoprire?”

Vincent van Gogh è vittima di una narrazione sbagliata da sempre. Prima non compreso, poi riscoperto e infine vittima di quella asfittica etichetta di genio e follia. La categoria di genio costringe l’artista in un bugigattolo polveroso e claustrofobico: ti fa pensare che basti solo contemplare la superficie per meravigliarti. E invece, con Vincent, la meraviglia sta tutta nelle sue parole.

Leggete le Lettere a Theo, La vedova van Gogh. Vi colmeranno il vuoto e il petto di emozioni.

Com’è andata la visita, alla fine?

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